Nicaragua, le colombe volano alto
di Fabrizio Casari.
Managua. Con un consenso che sfiora il 76%, il Frente Sandinista de Liberacìòn Nacional, guidato dal Comandante, Presidente Daniel Ortega e dalla Vicepresidente Rosario Murillo, si è aggiudicato la vittoria elettorale nelle elezioni celebratesi il 7 Novembre. Disporrà così di altri 5 anni di mandato presidenziale e di un Parlamento dove il sandinismo è maggioranza assoluta, pertanto la continuità con il governo uscente è garantita. Inizia da oggi, dunque, la nuova fase che per altri cinque anni almeno, garantirà l’incremento delle politiche pubbliche inclusive e il mantenimento di una posizione intransigente sotto il profilo dell’indipendenza e della sovranità nazionale del Paese.
I 165 osservatori internazionali ed i 67 giornalisti internazionali hanno certificato l’assoluta regolarità del voto, svoltosi in un clima di assoluta tranquillità ed in condizioni di trasparenza altrove sconosciute. E’ stata una prova formidabile di mobilitazione popolare ed il 65% dell’affluenza alle urne testimonia un investimento deciso dell’elettorato verso il proprio futuro. L’ampiezza territoriale uniforme e il numero assoluto e in percentuale raggiunto dimostra poi come il FSLN sia un partito autenticamente nazional-popolare, che riesce cioè a parlare con tutti i settori della società nicaraguense in ogni luogo del Paese.
Sul piano più squisitamente politico ha vinto la tenacia con la quale il Presidente, Comandante Daniel Ortega, respinse le pressioni interne ed internazionali per il voto anticipato, rifiutandosi così di modificare il calendario elettorale previsto dalla Costituzione, che prevede – come ovunque – le elezioni anticipate solo quando un governo non riscuota più la fiducia del Parlamento.
Rifiutarsi di anticipare le elezioni nel 2018 fu una manifestazione di legame forte con la Costituzione, perché non venne nemmeno considerato prioritario il vantaggio che avrebbe comportato il votare con l’odore di bruciato dell’infamia golpista ancora nell’aria. Si scelse di mantenere il calendario costituzionale e non la convenienza politica immediata. Tantomeno si accettò di riconoscere come entità politica con cui interloquire le potenze straniere che tentarono e tentano con forza crescente (e crescenti delusioni) di intervenire nella politica nicaraguense. Non si permise di alterare l’istituzionalità del Paese, il suo procedimento giuridico e costituzionale.
Si è dimostrato oggi come la decisione fu giusta. Il consenso pervenuto racconta di una identificazione assoluta tra il popolo e il governo. Uno dei motivi è proprio la sensazione di sicurezza e stabilità che offre insieme alle politiche inclusive. Qui, lontani anni luce dalla rappresentazione farsesca della politica così come la conosciamo in Europa o negli USA, il rispetto della costituzionalità del Paese è terreno imprescindibile e di premessa ad ogni considerazione politica e perché il rafforzamento della istituzionalità produce il consolidamento della democrazia formale e sostanziale. Di questi due aspetti della sovranità popolare è formato il cammino obbligato che va di pari passo con le politiche pubbliche che riducono le diseguaglianze. Democrazia formale e democrazia sostanziale devono viaggiare insieme, perché questo trasforma la gente in popolo, questo rende nazione un Paese.
Ha perso la destra unita sotto il segno del malinchismo, ha perso l’attitudine ad essere schiavi di notte e sentirsi padroni di giorno. Ha perso una destra recalcitrante e corrotta, imbottita di dollari e priva di ogni intelligenza politica, di ogni sapienza tattica, di ogni visione strategica. Una destra che non abita il Paese di cui straparla, che non ne conosce forza e perseveranza; una destra vecchia, di impronta servile e neocoloniale, che si offre al discount della politica come un detersivo inefficace. Una destra che rappresenta tutto il vecchio del latifondo e delle ginocchia consumate di fronte all’impero che si è trovata di fronte un FSLN capace di coniugare la tradizione con la modernità, la spinta all’indipendenza con l’ambizione di rappresentarla politicamente
Hanno perso i traditori e i mercenari, gli odiatori compulsivi, i produttori senza soste di menzogne avvolte in dollari. Il golpismo ha subito la più dura delle sconfitte, perché sull’astensionismo aveva puntato forte. Pensava che la stanchezza fisiologica che interviene dopo anni nel rapporto tra governanti e governati potesse scavare un solco; si è affidata all’opposizione isterica delle gerarchie ecclesiali, alle minacce statunitensi con leggi e sanzioni su misura, alle pressioni dell’Unione Europea e dei pagliacci latinoamericani, all’organizzazione di liberali e conservatori e di tutta la carovana di antisandinismo nella speranza che tutti questi elementi potessero, in qualche modo, produrre una distanza tra eletti ed elettori. Errore clamoroso da principianti, tipico di chi si propone di leggere i quadri complessi con il sistema binario invece che con una lettura olistica.
Hanno tentato la stessa strategia del 1990, approvando la legge Renacer a Washington nel tentativo, tra gli altri, di terrorizzare i lavoratori della zona franca (circa 130.000) con la minaccia di uscita del Nicaragua dal Cafta, senza dire che, semplicemente, non è possibile a norma di statuto e che dagli USA al resto del Centroamerica tutti ne pagherebbero un alto prezzo in termini commerciali. Hanno cominciato a disconoscere il risultato elettorale prima ancora che si aprissero le urne provando a definirne un valore esclusivamente interno, senza capire che ai nicaraguensi solo del Nicaragua importa.
La reazione imperiale
Gli USA hanno reagito con nervosismo alla loro sconfitta in Nicaragua. Biden è uscito dal sarcofago per definire una pantomima il voto nicaraguense e l’Unione Europea ha reiterato un suo non riconoscimento come annunciato già da mesi addietro, quando le elezioni non erano ancora state convocate. Stesso copione del resto messo in scena con il Venezuela e stessa identica risposta ricevuta: il Venezuela non si è minimamente curato del non riconoscimento europeo e lo stesso farà il Nicaragua. Vivono sereni e felici anche senza la UE: l’impotenza del Vecchio Continente verso l’America Latina è fattore non risolvibile con i sogni frustrati di neocolonialismo.
A livello continentale la prima reazione statunitense è stata quella di ordinare alla Costa Rica di emettere un comunicato nel quale disconoscono il risultato elettorale nicaraguense. San Josè ha accettato con entusiasmo; non capita tutti i giorni che una tra le più corrotte classi politiche del continente, a guardia di una nazione economicamente nulla, militarmente inerte e politicamente insulsa, si trovi a sostenere un ruolo come fosse un Paese vero e non un segno della generosità della giurisprudenza internazionale.
E’ solo il primo passo dell’offensiva politica, diplomatica e commerciale che verrà scatenata contro il Nicaragua. Utilizzeranno la coperta lacera e abbastanza sudicia dell’OSA, metteranno in campo il Gruppo di Lima (detto il cartello di Lima per la provata dipendenza dai narcos di chi lo compone) e chiederanno a qualche ONG finanziate dalla USAID di ricordarsi di condannare. Si distingueranno i governi fascisti del Cono Sud, con in testa Colombia, Cile, Brasile e Uruguay, che diranno le stesse cose con tre sigle diverse Paesi singoli, gruppo di Lima e OEA) per sembrare di più. Mobiliteranno tastiere mercenarie di presunti giornalisti dei media vincolati agli USA ed al sistema finanziario internazionale, magari esibendo qualche cialtrone pentito, di quelli che da giovani si fingevano di sinistra per lavorare ed ora sono di ultradestra per non smettere di lavorare.
Sul piano politico-commerciale si possono prevedere messe in opera di un insieme di misure destinate a piegare il Nicaragua agli interessi statunitensi, ma sarà tutt’altro che facile ottenere il consenso della comunità internazionale, a maggior ragione sul piano regionale. Succede infatti che uno degli effetti della maledetta globalizzazione è che l’intreccio di interessi reciproci dei diversi attori rende, su scala locale come globale, di difficile realizzazione iniziative che solo ad alcuni giovano e solo ad altri danneggiano. L’intreccio di interessi reciproci fa sì che tutti abbiano da perdere in una crociata senza senso.
Dal canto suo Managua può contare su diverse frecce al suo arco. La prima è il suo ruolo fondamentale nella contenzione del narcotraffico e del traffico di esseri umani verso gli Stati Uniti. Lo stesso Pentagono ha più volte sottolineato come le forze armate nicaraguensi siano le migliori della regione tanto in generale come in particolare per i compiti di pattugliamento della sua quota di mar dei Caraibi e della parte interna, così come della repressione dei fenomeni criminali. Un venir meno della collaborazione nicaraguense sia bilaterale che in ambito SICA metterebbe in crisi l’assetto della sicurezza regionale, il commercio e l’import/export dell’emisfero tutto e della cooperazione che su diversi terreni caratterizza il processo di integrazione dell’area.
Non conviene dunque a nessuno, USA e Canada compresi, alterare l’equilibrio faticosamente raggiunto in chiave di sicurezza regionale e, comunque, certo non conviene per sostenere una battaglia ideologica ad alto tasso di isterìa e di capricci imperiali, che vede Washington pretendere che i suoi dipendenti locali governino indipendentemente dal consenso che hanno.
Ma pensare che una minoranza bianca volgare e insignificante, priva di ogni rispetto e di qualsivoglia consenso possa rappresentare il futuro del Paese significa non avere il benché minimo senno e nemmeno il senso delle proporzioni. Credere che destabilizzare Managua non comporti di conseguenza anche una destabilizzazione dell’area e quindi, di riflesso, degli stessi USA, significa aver imparato la politica internazionale nelle enciclopedie a fascicoli.
A Managua sono attenti ma non certo disperati. Il Nicaragua ha fatto un gigantesco passo nel cammino che porta al rafforzamento della sua istituzionalità. Il segnale che volevano dare lo hanno dato. Il Paese è politicamente solido ed affidabile ed al riparo da tentazioni golpiste. Il governo è saldo, gode di una maggioranza politica schiacciante e non è nemmeno ipotizzabile prescindere da questi dati.
Parlare con il Nicaragua si può e si deve. Ci sono interessi comuni nell’area, dallo sviluppo alla sicurezza, dal commercio alle politiche migratorie. Serve dunque che gli USA si dotino di una politica. Dovrebbero trovare il coraggio di togliere dalle mani della mafia della Florida la politica statunitense verso l’America Latina, dato che questa serve solo ad ingrassare gli interessi della lobby cubano-americana che si arricchisce sull’ostilità e gli embarghi a Cuba, Venezuela e Nicaragua. Successivamente abbandonare l’idea che siano protettorati statunitensi tutto ciò che vive a Sud del Rio Bravo, apprendere la differenza tra dialogo e monologo.
Il Nicaragua non è un aggregato geografico come la Costa Rica. Il suo peso internazionale non è paragonabile a quello di nessun altro Paese della Regione. Ma la dimensione della sua sovranità è parte fondamentale della sua identità politica e culturale e non si può non riconoscere come la capacità di gestione di una seria polarizzazione politica lo rende un modello di democrazia e, insieme, il paese leader nella regione. Meglio proporgli confronti che scontri, meglio disegnare scenari utili piuttosto che inventare sanzioni inutili.
Nel frattempo il Nicaragua si gode la sua festa civica. Le colombe hanno volato in alto e i corvi hanno ritenuto di dover lasciare libero il cielo. La vittoria elettorale di ieri ricorda a tutti, ma proprio a tutti, che l’indipendenza genera sovranità che a sua volta partorisce libertà. La democrazia è un frutto delizioso da assaporare: almeno a questa latitudine, viene servita su piatti umili. Ma infrangibili.