Il risentimento in Brasile

“Il titolo di oggi “Il Paese necessita 46 anni per raggiungere livelli da Primo Mondo”, mi ha lasciato depresso. Basta immaginare a che livello staranno i Paesi del primo mondo fra 46 anni (lettera di un lettore della Folha de São Paulo del 1/9/2004).

I brasiliani, in genere, non si considerano risentiti. Di fatto, l’imperativo dell’allegria presente nella nostra cultura favorisce l’oblio delle lamentele e non il ricordo risentito degli errori e delle sofferenze passate. Siamo una nazione rivolta al futuro, un Paese che guarda avanti. Ma il risentimento non cessa di essere presente fra di noi, travestito con un linguaggio ironico, cinico o di rimprovero che senza esserlo assomigliano a una critica progressista relativa alle nostre colpe storiche e alle nostre insufficienze sociali. Colpe interpretate come debiti (rispetto al passato), suscettibili di essere pagati coll’azione presente. Al contrario concepiamo i nostri problemi sociali alla stregua di carenze che ci sembrano sempre ingiuste, di cui sono responsabili altri, di qualcuno che avrebbe il potere di rimediare ai nostri mali, ma non lo fa.

Il risentimento nella società brasiliana è radicato nella nostra difficoltà a riconoscerci come agenti di vita sociale, soggetti della nostra storia, responsabili collettivamente della risoluzione dei problemi che ci affliggono. Le sue radici risalgono alla tradizione paternalista e cordiale del comando, che tiene subordinati in una relazione di dipendenza filiale e servile di fronte alle autorità – politiche o padronali – nell’aspettativa di vedere riconosciuti e premiati il buon comportamento e la docilità di classe.

Prendiamo, come esempio di risentimento camuffato nella società brasiliana, la rapidità colla quale gran parte della popolazione sembra dimenticare, o perdonare, i crimini della dittatura militare, come se tali crimini avessero afflitto solo una piccola parte di militanti di sinistra, di giovani “radicali” che non rappresentavano gli interessi della maggioranza.

Gli avvenimenti traumatici vissuti da un gruppo minoritario non possono essere esclusi dall’esperienza collettiva della società nella quale si inserisce tale gruppo. Nel Brasile del decennio dei Novanta, i figli e parenti dei desaparecidos politici del periodo della dittatura militare promossero incontri, dibattiti e atti pubblici che miravano a sottrarre all’oblio l’assassinio dei loro cari e restituirli alla memoria della società dalla quale erano stati banditi dalla forza della repressione. Tali eventi commemorativi, nei quali si fece sentire la voce dei militanti catturati e torturati, dei figli e compagni (e) dei giovani assassinati, sono essenziali per la maturazione politica della società brasiliana. Non devono essere confusi colle politiche del risentimento, come vorrebbero far credere talune analisi di stampo conservatore, ma sono invece politiche di risarcimento, fondamentali affinché il dolore e l’indignazione non si trasformino in risentimento.

In Brasile, la nostra dedizione all’allegria, alla festa, all’irresponsabilità, ci spinge a rifiutare la memoria e ad abbandonare i progetti di riparazione delle ingiustizie passate. Distanti dalle condizioni sociali dei Paesi del cosiddetto Primo Mondo idealizzato e invidiato, ci accontentiamo di essere riconosciuti internazionalmente come popolo allegro, senza preoccupazioni e sensuale che il colonizzatore ha fatto di noi, fin dalla Carta di Caminha. Tale dedizione ci impedisce di portare fino alle ultime conseguenze la riparazione delle ingiustizie. Abbiamo fretta di “perdonare” i nemici colla paura di sembrare risentiti – ma il risentimento, senza osare pronunciare il suo nome, si nasconde proprio nelle forme di oblio affrettato, tanto tipico della società brasiliana.

Il rifiuto della memoria e del risarcimento – la negazione del risentimento – non è uguale al perdono: Non si può dire che la società brasiliana abbia perdonato i militari per i loro abusi, i loro crimini, per vent’anni di ritardo nello sviluppo della democrazia. Nulla è stato perdonato perché nulla è stato portato alle estreme conseguenze, nessun dittatore giudicato, nessuno ha avuto bisogno di chiedere perdono.  Contrariamente a quanto hanno fatto gli argentini – o dobbiamo considerare le madri di Piazza di Maggio risentite?- la società brasiliana è usa a far pagare poco il riscatto delle grandi ingiustizie della sua storia per non macchiare la propria reputazione di “ultimo popolo felice” del pianeta. Ma che prezzo caro paghiamo per questo!

L’alienazione al (presunto) desiderio dell’Altro – non più il colonizzatore ma gli attuali rappresentanti del mondo sviluppato – fa sì che non ci appropriamo della nostra storia come soggetti. Non ripuliamo nulla, non elaboriamo i nostri traumi né valorizziamo le nostre conquiste. Per ciò stesso noi, brasiliani, non ci riconosciamo nel discorso che produciamo e ci atteniamo a quello che lo straniero produce per noi. Per questa stessa ragione, siamo sempre in debito con un’identità perduta. Chi siamo noi brasiliani? Quali sono i caratteri che ci identificano di fronte a noi stessi? Come osserva Stella Bresciani,[i] chiedendosi perché la ricerca d’identità, nella società brasiliana, non cessi mai.

In Brasile, la costruzione di un’identità – o, il che sarebbe meglio, di un campo di molteplici identificazioni – si perde nella domanda di riconoscimento del nostro valore da parte delle nazioni più potenti. La ricerca di riconoscimento produce la sottomissione di fronte al più forte, sottomissione che è la condizione del nostro risentimento, del nostro “complesso di inferiorità” nazionale.  La critica apparentemente impegnata dei nostri mali sociali sfocia spesso nel conformismo di gran parte dei brasiliani, che si limitano a lamentare la nostra arretratezza e la distanza che separa la nostra realtà sociale da quella dei Paesi europei o degli Stati Uniti.

Ciò che il brasiliano non scorge nella sua cultura o nel complesso delle sue subculture non può chiedere ad altri di riconoscere. Per quale ragione i punti di svolta più determinanti della nostra nostra storia, così come la ricchezza della nostra produzione culturale, non sono sufficienti a rappresentarci di fronte a noi stessi? Autori che hanno pensato il Brasile nel secolo XX, come  Gilberto Freyre, e, sulla stessa linea, Darcy Ribeiro,hanno considerato che il sentimento di un’identità nazionale è sparito proprio alla fine del periodo coloniale, collo sforzo di sbiancamento ed europeizzazione della cultura locale, come tentativi del Brasile di trasformarsi in una società borghese.

Il nostro “avanzamento” in direzione della modernità ci è costato il prezzo della cancellazione dell’origine – il disprezzo per le “razze oscure” del negro e dell’indio, la svalorizzazione del portoghese bianco (venuto da un Paese già in decadenza); la scelta del modello francese (nella cultura) e inglese (nella gestione del capitalismo) come ideali.[ii]

Con ciò, i brasiliani si rappresentano come orfani di padre; non stimiamo gli antenati portoghesi, non riconosciamo grandi eroi tra i fondatori della nazione, non prendiamo molto sul serio i nostri simboli patrii. Ciò potrebbe consentire una condizione di grande libertà, se non ce ne risentissimo e non cercassimo sempre, in politica, nelle pratiche religiose e nella cultura di massa, di recuperare figure di padre autoritario e protettore. La nostra presunta orfanità simbolica non ha prodotto una società emancipata dall’autorità paterna, ma una sottomissione permanente all’autorità di governanti paternalisti reali, abusatori, violenti come il padre dell’orda primitiva del mito freudiano.

Cordialità e risentimento

“La democrazia in Brasile è sempre stato un deplorevole malinteso. Un’aristocrazia rurale e semifeudale l’ha importata e tentato di aggiustarla, qualora fosse possibile, coi suoi diritti e privilegi – gli stessi privilegi che, nel Vecchio Mondo, avevano costituito l’obiettivo della lotta della borghesia contro gli aristocratici”.[iii]

Il fatto è che, dell’eredità coloniale brasiliana, non basta riconoscere il debito simbolico colle razze rinnegate del negro e dell’indio. Bisogna dare continuità alla riflessione critica, iniziata da  Sérgio Buarque de Holanda, sull’eredità dell’autoritarismo cordiale che ci ha lasciato il colonizzatore portoghese. Il Brasile coloniale fu una società agraria diretta d’accordo cogli interessi particolari dei primi proprietari, che concentravano grandi estensioni di terra sotto il loro potere. Ogni proprietà funzionava, chiusa in se stessa, come una repubblica privata il cui signore faceva le proprie leggi e le applicava, con mano di ferro, ai suoi familiari e subordinati.

“Nei domini rurali vi è il tipo di famiglia organizzata secondo le norme classiche del vecchio diritto romano-canonico, che si sono mantenute nella penisola iberica attraverso innumerevoli generazioni, che prevale come base e centro di tutta l’organizzazione. Gli schiavi delle piantagioni e delle case, e non solo gli schiavi, come gli aggregati dilatano il circolo familiare e, con esso, l’autorità immensa del pater familias”.[iv]

Al contrario di quanto successe nei Paesi dell’America spagnola o in America del Nord, in Brasile le élites hanno privilegiato la vita nell’isolamento delle fazendas a scapito delle città. Queste, fino al secolo XIX, (colla notevole eccezione di Recife sotto la dominazione olandese) non sono giunte a costituire quello che chiamiamo uno spazio pubblico.  Erano luoghi di passaggio, abitati da talune categorie di lavoratori manuali, da poveri senza lavoro, da piccoli commercianti che avevano poco da offrire, dato che le fazendas producevano quanto necessario al loro sostentamento. Abbiamo avuto qui, almeno fino alla venuta della famiglia reale portoghese, nel 1808, non una civiltà agricola, nel senso inteso da  Sérgio Buarque de Holanda, ma una civiltà rurale, composta da veri e propri feudi che non riconoscevano subordinazione a nessun potere centrale.

“Sempre immerso in se stesso senza tollerare alcuna pressione esterna, il gruppo familiare si mantiene  immune da qualsiasi restrizione o scossa. Nel suo schivo isolamento può disprezzare qualunque principio superiore che cerchi di perturbarlo od opprimerlo. In questo ambiente, il potere paterno è virtualmente illimitato e pochi sono i freni alla sua tirannia. (…) L’entità privata precede sempre, al loro interno, quella pubblica”.[v]

Dopo l’indipendenza e con il mantenimento della monarchia, Sérgio Buarque de Holanda si riferisce all’invenzione improvvisata di una borghesia urbana, che non impedì che la mentalità da “casa grande” invadesse le città e organizzasse le relazioni fra le classi, anche nelle professioni più umili.[vi]

Il predominio degli interessi privati su quelli pubblici, della morale familiare sulle leggi della polis, dei valori affettivi sull’impersonalità delle regole di cortesia, hanno formato in Brasile una concezione dello Stato contraria a quella istituita dalla modernità, come “trionfo del generale sul particolare, dell’intellettuale sul materiale, dell’astratto sul corporeo (…) L’ordine familiare, nella sua forma pura, è abolito dalla trascendenza”.[vii]

Tale forma di convivenza sociale, retta da tendenze sensuali, rotture emozionali e preferenze affettive, è l’opposto della civiltà. E’ in ciò che consiste la famosa cordialità brasiliana, nell’espressione di Ribeiro Couto consacrata dall’opera di Sérgio Buarque.

Bene: per quanto paradossale possa sembrare, l’uomo cordiale è inseparabile dalla modalità brasiliana dell’uomo del risentimento. Non è disposto ad accettare il necessario sconcerto in cui l’impersonalità della legge getta il cittadino, reso da questa impersonalità responsabile della costruzione del suo destino, individuale e collettivo; è pronto ad aspettarsi dalle autorità pubbliche la soddisfazione delle richieste d’amore e la pratica della giustizia basata sulle preferenze affettive; finisce per rappresentarsi, davanti all’Altro (che in età adulta è inseparabile dalle strutture del potere) come il bambino davanti a genitori protettivi e amorevoli; in tal modo la società brasiliana spesso rinuncia al compito di costruire un ordine repubblicano, moderno, adulto.

Dal punto di vista delle élites, la cordialità presenta un duplice vantaggio: oscurando l’impersonalità della legge, maschera una serie di abusi sotto un velo di favoritismo e di merito ottenuto in nome di preferenze affettive. Oltre a ciò, l’esercizio sfacciato di questo stesso favoritismo ammansisce le classi subalterne che preferiscono fare la fila in attesa dei benefici che insorgere alla ricerca dei propri diritti.

Dal punto di vista dei dominati, lo stile cordiale della dominazione indebolisce l’impulso che dovrebbe condurre all’esercizio permanente dell’emancipazione. In Brasile è frequente che lo stesso adempimento della legge e dei diritti venga mascherato sotto l’apparenza di un favore speciale. Essere prontamente servito in una ripartizione pubblica, conseguire un posto nei servizi sanitari, ricevere un risarcimento per causa giusta, tutto sembra, agli occhi dei poveri che non conoscono i propri diritti, il risultato di un favore concesso da un’autorità benevola. L’uomo cordiale preferisce godere dei benefici secondari della sua posizione di sfruttato, ma sfruttato con garbo, che rischiare di perdere questi falsi “privilegi” scontentando un padrone o un’autorità paternalista.

Ancora oggi la società accetta, confusamente, questo modello di governo originato dalla tradizione rurale, nel quale l’autorità politica non agisce come rappresentante degli interessi della maggioranza, ma come padre di famiglia, autoritario o protettivo, che infantilizza e passivizza la società, impedendone l’emancipazione mediante il pieno fiorire delle istituzioni repubblicane. La mentalità della “casa grande” è ancora presente nelle relazioni di dominio e di sfruttamento, in molti settori della società brasiliana.

Il risentimento sociale, in Brasile, è l’espressione della frustrazione generalizzata di fronte al fallimento di questa delegazione infantile di potere. E’ il frutto di codardia – non propriamente morale, ma politica – che ci porta a fuggire dalla tensione inevitabile che attraversa le relazioni tra le classi, in cambio del godimento propiziato dal modo sensuale di sfruttamento dei corpi e di adescamento delle coscienze.

In questo caso, chiamare “arretrate” queste relazioni non rappresenta un risentimento in relazione ai vantaggi del P       rimo Mondo, al quale ci sottomettiamo pieni di invidia e di ammirazione; la constatazione della nostra arretratezza è un modo di misurare la distanza che ancora ci separa da alcune conquiste elementari della modernità, che in alcuni Paesi vigono già da più di un secolo.

Il recupero della coscienza dell’origine del nostro ritardo, che naturalizza le relazioni sociali storicamente prodotte, non è uguale alla rielaborazione caratteristica delle patologie della memoria, nel risentimento. È un lavoro contro la ripetizione prodotta dalla rimozione. La rimozione dell’origine non solo ha l’effetto di diminuire la nostra autostima, a causa della mancanza di un forte sentimento di identità nazionale. Permette la perpetuazione inconscia dei nostri mali. Riconoscere l’origine è anche una condizione per effettuare ogni cambiamento di rotta nella storia di un paese. Solo il riconoscimento della storia può impedirci di essere condannati a ripeterla. Hannah Arendt, nella sua riflessione sull’importanza emancipatoria della conoscenza della tradizione, usa l’espressione di Tocqueville: se il passato cessa di far luce sul futuro, saremo condannati a vagare in mezzo all’oscurità[viii].

Il potere del padre o l’assemblea dei fratelli

Non è che manchi il padre, la tradizione, o la filiazione nella società brasiliana; manca il riconoscimento di questa affiliazione cancellata, dell’origine respinta in nome dell’identificazione con un Altro idealizzato ed estraneo alla nostra storia. Manca il riconoscimento del nostro patrimonio politico e culturale – necessario, ma non sufficiente per l’emancipazione della società brasiliana.

Ma nessun nome di padre si sostiene di per sé solo dalla trasmissione verticale del patrimonio e della tradizione. Sono i figli che, eliminando il padre tiranno per emergere come soggetti, istituiscono la rappresentazione simbolica del padre, sostegno della Legge che consente la convivenza in nome di un bene comune. Ciò che manca alla società brasiliana non è più un padre, posto in una posizione di autorità, di maestro dell’ingegno o di leader messianico, ma il riconoscimento dell’azione repubblicana da parte di formazioni orizzontali, che chiamerei, metaforicamente, fraterne. [ix]

Se il risentimento è uno dei sintomi di ciò che fallisce  nel progetto egualitario delle democrazie moderne, la sua cura non passa attraverso la chiamata alla benemerenza dello Stato (padre), ma attraverso il rafforzamento dei legami orizzontali tra i cittadini (fratelli), per rendere il paese non solo una democrazia ma, soprattutto, una repubblica. Ciò che è mancato al Brasile repubblicano non è stato un padre/fondatore la cui immagine potesse sostenere la nostra autostima, ma la creazione di meccanismi di incorporazione di tutte le classi sociali nella vita della Repubblica appena proclamata.

Helosa Starling sottolinea la contropartita immaginaria di questo precario progetto politico: “non è riuscita a formare il fondamento repubblicano del popolo, ossia, non è riuscita a riconoscere, nella popolazione dei brasiliani, l’esistenza di uomini uniti dalla legge e capaci di condividere una certa immaginazione che permettesse loro di superare i limiti della propria vita privata e domestica e di rappresentare, come comuni, certi sentimenti, valori e norme per la costruzione di un proprio destino”[x].

Il repubblicanesimo fallito a cui si riferisce Starling si riflette anche nei prodotti dell'”immaginazione”, le opere letterarie e artistiche che rappresentano la società di fronte a sé stessa. In questo senso, la proposta di consolidare la nostra identità culturale con il riscatto dell’eredità coloniale, proposto da Freyre e Darcy, non prende in considerazione il messaggio nel suo complesso. Da un lato, non è più sufficiente costituire il campo di identificazione in grado di rappresentare il Brasile contemporaneo di fronte a sé stesso. Bene o male, il Brasile si è trasformato, da colonia di schiavi in una democrazia capitalista, diseguale ma pur sempre moderna, sempre in debito con un Primo Mondo ideale che, date le dinamiche dello scenario internazionale, è evidentemente fuori dalla nostra portata.

È questa nazione modernizzata in modo diseguale a mancare di un senso di identità. Il fallimento del progetto emancipatorio della società brasiliana e il predominio dell’economia sulla politica, che ci tengono legati alle condizioni imposte dal mercato finanziario internazionale e impediscono la creazione di alternative nazionali, rendono ancora più difficile per i brasiliani riconoscere ciò che caratterizza il loro paese. La domanda: “Che paese è questo?” [xi] ritorna sempre, nei discorsi dell’opposizione, nei titoli dei giornali, nelle conversazioni dei bar.  Chi siamo noi se non siamo l’Altro, lo straniero con cui vorremmo identificarci?

“Questo paese non è serio”, dice la risposta del risentimento, ripetendo ancora una volta il commento di un Altro. [[xii].  Siamo la feccia, la spazzatura, un progetto fallito. Abbiamo perso il tram dello sviluppo e viviamo correndo dietro il pregiudizio. Se la risposta risentita riecheggia  il presunto sguardo di disprezzo dell’Altro sui nostri mali, l’aspetto negativo del risentimento cerca di valorizzare il Brasile ricorrendo alla sottomissione che lo straniero si aspetta da noi. Il riscatto dell’eredità coloniale proposto da Gilberto Freire rappresenta una soluzione regressiva che non affronta le reali condizioni del problema. Oggi la società brasiliana, orchestrata dalla televisione, sembra riconoscersi esattamente nello stereotipo formato a partire dall’eredità nera e indigena che si traduce nella fantasia del paese del carnevale, della batucada, delle mulatte  e  della “macumba-per-turisti”, nelle parole di Nelson Rodrigues, che ci identifica agli occhi dello straniero.

“O ci lamentiamo della mancanza di riconoscimento e viviamo sempre in debito con un “Primo Mondo” che non raggiungeremo mai – come il lamento del lettore di giornali citato nell’epigrafe di questo capitolo – o ci accontentiamo di una “identità nazionale” riconosciuta agli occhi dell’Altro, riducendo la nostra diversità culturale al triangolo samba-sex-football e ancora una volta risentiamo  del  fatto che questa presunta identità sia ancorata alla prosecuzione dell’asservimento dell’indio e dello schiavo alle esigenze e ai capricci del uomo bianco.

In questo senso, le proposte dell’antropofagia e, quarant’anni dopo, della tropicalia, rappresentavano tentativi umoristici e audaci di superare il risentimento incorporando l’origine, senza allinearsi all’apologia dell’arretratezza. Se la ricca diversità culturale brasiliana non favorisce alcuna proposta di sintesi, l’antropofagia e la tropicalia hanno cercato di raggiungere, attraverso la satira (che in origine si riferisce all’idea di saturazione) il complesso delle nostre contraddizioni.

In politica, la tradizione del dominio paternalistico-populista con cui cerchiamo di supplire alla  mancanza di un padre ideale favorisce anch’essa  la condizione del risentimento. Fino al momento di scrivere questo capitolo, sembra che la società brasiliana non avesse superato il desiderio di servitù (e protezione) che ci fa trasformare ogni nuovo leader politico, da portavoce dei desideri e delle rivendicazioni emergenti in un nuovo padre dei poveri, cui è concesso di governare nello stile di dominio cordiale che ci è familiare.

È come se la tradizione repubblicana, che ha avuto già quasi tre secoli di vita in Europa e nelle Americhe, non sia mai riuscita a radicarsi qui; come se la società brasiliana non avesse mai compreso il suo ruolo di agente delle trasformazioni  da essa stessa domandate non come conquiste legittime, ma come prova di amore paterno da parte dello stato autoritario, i cui governanti spesso si presentano come figure familiari, affettive, protettive – o irascibili quando i venti soffiano contro. La tradizione dell’uomo cordiale che attraversa la nostra vita politica demoralizza le istituzioni democratiche e genera risentimento nella società. Essa oscilla tra l’attesa passiva del’adempimento delle promesse del tipo “padre”, la disillusione e la sterile rimostranza.

Tuttavia, l’origine del risentimento risiede proprio nella separazione tra i soggetti e il loro potere di agire. In tali termini, la delusione per le promesse non mantenute non predispone all’azione; produce un esercito di lamentosi passivi, pronti a (ri)allinearsi con il peggiore dei conservatori, come forma di reazione amara e sterile, carica di desideri di vendetta.

Il risentimento è l’inverso della politica. E’  il frutto della combinazione fra promesse non mantenute colla passività che promuovono. I risentiti, in politica, sono coloro che hanno rinunciato alla loro condizione di agenti di trasformazione sociale per attendere i diritti e le prestazioni garantiti in anticipo. Così, il risentimento è aggravato dal paternalismo, nel qual caso il diritto alle pari opportunità è associato, non con le conquiste delle lotte popolari, ma con la buona volontà di un sovrano amorevole. Ecco perché il risentimento non è, come può sembrare, il primo passo verso un’efficace svolta nel gioco del potere. La passività della posizione risentita non permette alle persone di percepirsi come agenti del gioco delle forze che determina la loro vita. Il risentimento è il terreno degli affetti reattivi, della vendetta immaginaria e rimandata, della memoria che serve solo a mantenere una lamentela ripetitiva e sterile.

Se il risentimento è l’inverso della politica, può essere curato solo dalla ripresa del senso radicale dell’azione politica. L’atto politico comporta sempre il rischio di destabilizzare l’ordine. A differenza della rassegnazione risentita e della rivolta sottomessa del risentimento, tale ripresa radicale dell’azione politica nasce da una scommessa sulla possibilità di modificare le condizioni strutturali presenti nella sua origine.

Riferimento

Maria Rita Kehl. Ressentimento. 3ª. Edição. São Paulo, Boitempo, 2020.

Note

[i] – Stella Bresciani, “Identidades inconclusas no Brasil do século XX – fundamentos de um lugar-comum” in: Memória e… (cit), pp. 403-429.

[ii] – La permanenza di un modello economico arcaico, permeato da residui e vizi schiavistici, combinata con l’imborghesimento dei costumi e coll’identificazione coi modelli europei, è stata analizzata da  Roberto Schwarz  nel famoso saggio  “Idéias fora do lugar”, del 1976 .

[iii] – Sérgio Buarque de Holanda, Raízes do Brasil (1936). São Paulo, Companhia das Letras, 1998, p. 160.

[iv] – Ibidem, p. 81.

[v] – Ibidem, p. 82.

[vi] – Ibidem, p. 87.

[vii] – Ibidem, p. 141.

[viii] – Aléxis de Tocqueville, nel capitolo finale di La democrazia in America “A partire dal momento in cui il passato cessò di lanciare la sua luce sul futuro, la mente dell’uomo vaga nell’oscurità”.

[ix] – Ho maggiormente approfondito tale proposta nel testo “A fratria órfã” em: Kehl (org.) Função fraterna. Rio de Janeiro: Relume-Dumará, 2000.

[x] – Heloísa Maria Murgel Starling, “A República e o subúrbio – imaginação literária e republicanismo no Brasil” in: Cardoso (cit) Retorno ao republicanismo, p.179.

[xi] – Francelino Pereira.

[xii] – Il generale  De Gaulle.

di Maria Rita Kehl

Fonte: actualidad.rt.com/ – sito A Terra é Redonda

 

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