Cuba, l’ONU contro gli USA

L’Assemblea Generale delle Nazioni Unite ha approvato, con 185 voti contro due, la mozione cubana che chiedeva la fine del blocco USA contro Cuba. La comunità internazionale ha rifilato l’ennesima sberla alla politica statunitense contro Cuba, ammesso che politica possa essere definita la versione criminale dell’ostilità ideologica, la miscela di business, interessi elettorali, vendetta e rancore che costituisce il fondamento dell’agire statunitense verso Cuba.

Il mondo intero ha ripetuto, per l’ennesima volta, alcuni concetti elementari che persino gli statunitensi dovrebbero riuscire a comprendere: che il blocco contro Cuba è una ignominia del diritto internazionale, che qualifica come banditi da strada i suoi ispiratori e che i paesi che sono membri delle Nazioni Unite, ovvero che si riconoscono nel consesso internazionale, sono dalla parte di Cuba. Che Cuba soffre un castigo immeritato ed infinito, che non ha ragioni, decenza e giustificazioni, che si basa solo sulla sete di vendetta dell’impero verso il primo territorio libero delle Americhe.

Che Cuba ha ragione l’intera comunità internazionale lo dice con un click. E’ un click poderoso, che scuote il Palazzo di Vetro e per un pochi momenti trasforma New York in patria del Diritto Internazionale. Un click che traduce le 6700 lingue e dialetti che si parlano sul pianeta: ognuno con la propria cultura, la propria storia e i propri assetti sociopolitici, ma tutti dicono SI, chiedono che il blocco genocida venga rimosso.

Quanto fatto dalla Casa Bianca contro Cuba durante la pandemia meriterebbe l’imputazione per crimini contro l’umanità del Presidente Biden. Ma nessun Paese avrà il coraggio di denunciare nei giusti termini giuridici la più grande ed estesa violazione dei diritti umani consumata dalla seconda guerra mondiale ad oggi.

Nella vita politica dei paesi, come in quella degli individui, ci sono momenti da interpretare, occasioni da cogliere, azioni da compiere per non trovarsi dal lato sbagliato della storia. Quella della votazione alle Nazioni Unite della mozione che Cuba presenta per chiedere la fine del blocco che affligge l’isola socialista dal 1962, è una di quelle occasioni che possono affondare o redimere. Ovvero che possono consegnarti alla protervia imperiale o, invece, consentirti di offrire il petto ad una battaglia di giustizia, di civiltà giuridica e di difesa dei diritti umani. Si può scegliere la ragione – come hanno fatto 185 paesi, quasi l’intera comunità internazionale – oppure affiancarsi alle ossessioni e all’odio USA, che ha nella diffusione in lungo e largo della sofferenza e del dolore altrui, la sua modalità di governo del mondo come terapia di contrasto alla decadenza imperiale.

L’orrore del blocco è politico per la sua connotazione ideologica, è umanitario per i danni spaventosi in economia e vite che Cuba patisce, ed è giuridico, per l’obbrobrio legale che lo sostiene. Quest’ultimo aspetto, sia chiaro, è parte importante della reazione della comunità internazionale.

Gli USA affermano che il blocco è un embargo e che, come tale, è scelta di politica interna statunitense, con ciò indicando una supposta inabilità dell’Onu al giudizio. Ma la pretesa nordamericana è ridicola. Perché se è vero che la scelta d’istituire il blocco è frutto di scelta politica interna statunitense, le innumerevoli conseguenze dello stesso riguardano l’intera comunità internazionale, colpita dall’extraterritorialità delle disposizioni previste dalle leggi Torricelli e Helms-Burton, che sono la cornice giuridico-legislativa con la quale l’aggressione all’isola caraibica si estende anche al resto della comunità internazionale, azzerandone così qualunque dimensione bilaterale per trasformarla in questione internazionale.

Vero è che il blocco è un insieme di leggi, norme e disposizioni interne degli Stati Uniti e, in questo senso, il fatto che si estendano al resto del mondo non ne muta la genesi; ma l’originaria disposizione di embargo decisa da Kennedy nel 1962 con il Proclama 3447, che ampliò le restrizioni commerciali varate da Eisenhower nell’ottobre 1960, è profondamente mutata nel corso dei decenni, assumendo un’aperta ed illegale connotazione extraterritoriale che la connota da anni come pirateria internazionale.

Per la sua extraterritorialità, per l’ossessivo, minuzioso dettaglio delle sanzioni (a Cuba e a terzi), oggetto dei numerosi dispositivi collegati, definire il blocco come embargo è falso, incongruo rispetto alle dimensioni, la durata e l’extraterritorialità dei provvedimenti e alle conseguenze che ha provocato e provoca all’isola e al resto della comunità internazionale. Per i suoi obiettivi, per la sua portata e per i mezzi impiegati per ottenerli, il blocco degli Stati Uniti contro Cuba si qualifica come un atto di genocidio in base a ciò che sancisce la Convenzione per la prevenzione e la repressione del delitto di genocidio del 9 dicembre 1948, e come un atto di guerra economica, in base alla Conferenza Navale di Londra del 1909.

A sostenere il blocco, a dire sì alla prosecuzione di questo intreccio criminale e paranoico di decreti, leggi e norme che il democratico Biden ha ritenuto di dover ulteriormente inasprire con 246 atti amministrativi, sono stati gli Stati Uniti e Israele, accompagnati dall’Ucraina e dal Brasile, che hanno scelto di astenersi perché impossibilitati a sconfessare il loro neofascismo ma privi del coraggio per affermarlo senza fronzoli.

Nell’ignominia di questo gruppetto di paesi trova residenza la vuota retorica ipocrita sui diritti umani e la ancor più finta narrazione sulla democrazia occidentale. Quando lo scontro è tra giusto e ingiusto stare a metà della barricata è già stare da una parte della stessa. In questo caso la parte peggiore. Il voto del Brasile è il colpo di coda velenoso di Bolsonaro e non desta stupore il voto di Israele e Ucraina, che della persecuzione verso ciò che si oppone ai loro regimi ne fanno un punto d’onore, quasi un carattere identitario che oscenamente rivendicano.

L’Ucraina ha colto l’occasione per dimostrare di essere solo un protettorato degli Stati Uniti, un avamposto militare della NATO, l’ufficio di rappresentanza degli interessi della famiglia Biden e della Monsanto. Fosse stato un Paese e non un rettangolo di gioco del domino statunitense, gli sarebbe stato difficile non provare un sentimento di riprovazione per un blocco anacronistico, ingiusto, criminale e carico di odio. Ancor di più quando si ripropone quotidianamente la questua petulante intrisa di finzione che la vorrebbe nazione sovrana e aggredita e non testa di ponte del vero aggressore. Nel voto si riconoscono i tratti salienti della cricca di Kiev: affaristi affamati di Euro, carne da macello dell’impero destinata alla distruzione della pace e non colombe assediate da aquile.

Cuba è isola dell’orgoglio, maestra di resistenza, docente di ribellioni e dispensatrice di buone azioni, tra queste le opere sociali che, dentro e fuori l’isola, hanno caratterizzato e caratterizzano il senso di responsabilità del suo ruolo storico. Che è infinitamente più grande delle sue dimensioni, della sua popolazione e delle sue risorse e, per questo, infinitamente più onorevole e rispettabile.

Al voto in sede ONU dovrebbero seguire atti di concreta solidarietà verso un Paese che è in gravi difficoltà: lo è proprio a causa di quei dispositivi genocidi arrivati persino a colpire durante la pandemia sul terreno della sanità d’urgenza, dei dispositivi coadiuvanti della respirazione per i malati di Covid. Molti dei paesi che hanno votato per l’abolizione del blocco appartengono all’Unione Europea, che condanna Cuba reiteratamente nonostante quello che Cuba ha fatto per l’Europa durante la pandemia. Ma la servitù non prevede riconoscenza e l’ingegno senza dignità si riduce a furbizia.

Gli USA difficilmente prenderanno atto della ragione, appare improbabile un sussulto di decenza che possa produrre parole e fatti diversi da quelli visti fino ad oggi. Il reticolo criminale che va sotto il nome di embargo è e resterà per sempre una vendetta stupida e feroce verso chi più piccolo di te, così vicino a te, è molto migliore di te.

di Fabrizio Casari

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