Nelle sedi del Comando de Acción Inmediata si tortura come nei centri di detenzione clandestini dell’Argentina sotto la dittatura. Nelle strade si manifesta contro lo “Stato assassino”. Siamo di fronte ad un nuovo Bogotazo?
di David Lifodi.
Novantuno anni fa, il 7 giugno 1929, a Bogotá, un militare della guardia presidenziale spara a Gonzalo Bravo Pérez e lo uccide. Bravo Pérez studiava legge all’ Universidad Nacional e frequentava i corsi tenuti da Miguel Abadía Méndez, professore universitario, ma anche presidente della Colombia.
Da allora, nel paese andino, è cambiato ben poco. La polizia continua ad uccidere e anche il contesto di mobilitazioni sociali è lo stesso, nonché l’impunità degli agenti: il nome del responsabile dell’omicidio di Gonzalo Bravo Pérez non venne mai fuori, così come non si è mai interrotta la pratica di eliminare attivisti e militanti tramite l’utilizzo degli squadroni della morte paramilitari. Il 23 novembre 2019 è stata la volta di un altro giovane, Dilan Cruz Medina, 18 anni, a rimanere ucciso dalle pallottole della polizia mentre partecipava ad una manifestazione pacifica contro le politiche sociali ed economiche del presidente Iván Duque, fino al caso più recente, avvenuto poco tempo fa, dell’avvocato Javier Ordoñez, assassinato dal fuoco degli agenti del Comando de Acción Inmediata – Cai.
Per quanto riguarda Dilan Cruz Medina, tutto fa pensare che l’agente responsabile del delitto, Manuel Cubillos Rodríguez, riesca a farla franca, grazie al tentativo del governo di coprire ogni eventuale indizio che possa testimoniare le responsabilità statali e parastatali. Al pari della presidenza Uribe, quella di Iván Duque si caratterizza, ogni giorno di più, per la persecuzione di giovani e di persone che si trovano in una situazione di forte vulnerabilità sociale. Inoltre, i centri del Comando de Acción Inmediata si configurano ogni giorno di più come dei centri di tortura, dei Garage Olimpo legalizzati dove repressione e violenze rappresentano ormai una triste normalità. Nei Cai si esercita una violenza sistematica contro la popolazione, ma l’ineffabile ministro della Difesa Carlos Holmes Trujillo, come del resto il presidente Duque, non hanno alcun interesse nel promuovere un’investigazione reale per far luce sulle violazioni dei diritti umani e sulle attività repressive delle forze armate.
Non solo. Il fatto che a giudicare l’agente colpevole di aver ucciso Dilan Cruz sia un tribunale militare, foro non competente per investigare, giudicare ed esprimere il verdetto su Manuel Cubillos Rodríguez, come ha sottolineato la Corte interamericana per i diritti umani, fa capire quale considerazione del diritto hanno le istituzioni di governo.
L’uccisione di Javier Ordoñez ha creato le condizioni per un nuovo Bogotazo, che stavolta si è esteso rapidamente in tutto il paese, stufo degli episodi di despalazamiento, dello sterminio dei laeder sociali, delle aggressioni alle comunità contadine e del più generale potere dell’ultradestra di spadroneggiare in tutta la Colombia. È per questi motivi che si è parlato di un Secondo Bogotazo, mentre il generale Gustavo Moreno, a capo della polizia, si affannava nuovamente a chiedere perdono ai familiari di Javier Ordóñez nel tentativo di autoassolvere i suoi uomini e lo Stato colombiano. Contemporaneamente, il testimone chiave che inchioda gli agenti del Cai alle proprie responsabilità, pur mantenendo l’anonimato, ha già ricevuto minacce di morte, segnale evidente di una situazione che ogni giorno di più sta sfuggendo di mano.
È stato lo stesso Moreno a constatare che in rete girano almeno 50 video in cui vengono riprese azioni violente della polizia tra il 9 e 10 settembre scorso. Trentacinque militari hanno riconosciuto di aver sparato, ma anche per coloro che non si sono esposti pubblicamente parla la mancanza di munizioni ricevute in dotazione. L’esclusione sociale e politica dei colombiani, i massacri, i legami tra governo e narcotraffico rappresentano una miccia che potrebbe esplodere di nuovo da un momento all’altro contro uno Stato che è difficile non definire “assassino”, come urla la gente nelle principali città del paese.
A testimonianza di ciò, denuncia il giornalista Hernando Calvo Hospina, prosegue la pratica dei falsos positivos. Negli otto anni di presidenza Uribe, secondo i dati governativi, sono stati uccisi 19.405 guerriglieri, ma se lo stesso governo ripeteva che Fuerzas Armadas de Revolucionarias de Colombia – Farc, ed Ejército de Liberación Nacional – Eln, insieme non arrivano a 12.000 uomini, c’è qualcosa che non torna. Risulta quindi evidente che le migliaia di guerriglieri caduti in combattimento sono in realtà civili innocenti, perlopiù giovani delle periferie urbane delle grandi città colombiane uccisi dalla polizia e spacciati per esponenti delle Farc o dell’Eln.
Il sacerdote Alejandro Angulo, del Centro de Investigación y Educación Popular, sostiene da tempo, che le proteste sono infiltrate da agitatori di professione, spesso legati alla polizia, per dar modo ogni volta alle forze armate di reprimere con violenza qualsiasi protesta e delegittimarla, sostenendo che i disordini sono provocati da gruppi dediti alla guerriglia urbana con il sostegno dei media mainstream.
Una cosa, per il momento, è certa: i militari colombiani da sempre hanno il gatillo facil e nessuno sembra intenzionato ad arginarli.