America Latina: il ritorno dei gorilla

Map of Latin America with the flags of countries. colorful design. vector illustration

di Fabio Marcelli.

Nella nuova e delicatissima situazione internazionale determinatasi a seguito dell’invasione russa dell’Ucraina, ultima tappa di un’escalation le cui origini risalgono in realtà al crollo del Muro di Berlino e alla fine dell’Unione sovietica, l’America Latina sembrerebbe per certi versi essere uscita dai radar ed aver perso la propria rilevanza.

Così tuttavia non è.  Anche se appaiono lontane oramai anni-luce le smargiassate di Trump e di Pompeo che tentavano, non più tardi di tre anni fa, di riesumare la dottrina Monroe, l’Impero non ha mai smesso ovviamente di dedicare tutta l’attenzione necessaria al continente americano.

Il previsto andamento del prossimo Vertice delle Americhe, disertato da Stati chiave come Messico, Bolivia e Guatemala, dopo che gli Stati Uniti avevano deciso di non invitare Cuba, Nicaragua e Venezuela, in quanto ritenuti non conformi alla Carta democratica interamericana del 2001, la dice lunga sulla crisi di egemonia statunitense sul continente.

Sappiamo del resto in quale misura la controffensiva statunitense sul continente europeo e i progetti di destabilizzazione dell’Ucraina e della Russia siano stati concepiti avendo bene presente il contesto globale caratterizzato, fra l’altro, dall’onda lunga delle rivoluzioni  latinoamericane inaugurate da quella bolivariana coll’elezione di Chavez nel 1998 e il varo della nuova Costituzione nel 1999.

Era quindi seguita una fase di riflusso, coi colpi di Stato in Honduras (2009) e Paraguay (2012), colla vittoria dell’opposizione alle elezioni parlamentari venezolane e quella di Macri alle presidenziali argentine (2015) e, quindi, l’elezione di Bolsonaro alla presidenza brasiliana e il golpe contro Evo Morales in Bolivia (2019).

Ma il vento era nuovamente mutato colla restaurazione della democrazia in quest’ultimo Paese a seguito delle elezioni presidenziali del 2020 che vedevano la vittoria di Luis Arce, come pure colla vittoria del candidato peronista Alberto Fernandez in Argentina e, da ultimo, quella di Gabriel Boric in Cile, che si abbinava in modo molto significativo all’elezione dell’Assemblea costituente e quindi alla fine definitiva del dominio pinochettista, durato in forma piena dal golpe del 1973 fino al 1988, ma continuato in modo larvato per mezzo della Costituzione precedente, che sottoponeva a tutela la libera espressione democratica del popolo cileno.

Vanno ovviamente menzionati anche i tentativi di destabilizzazione nei confronti di Cuba, Venezuela e Nicaragua. Nella prima si sono protratti fino alla scorsa estate, nell’intento, naufragato, di trarre profitto dalla crisi economica indotta dal COVID. In Venezuela hanno vissuto momenti acuti colle guarimbas fino al 2017 e successivamente col tentativo di autoproclamazione di Guaidò nel 2019. In Nicaragua colle violente manifestazioni della primavera 2018.

Nel complesso tuttavia può dirsi che questi tentativi siano naufragati, confermando la solidità della linea avanzata delle rivoluzioni latinoamericane, attestata anche dalla menzionata sconfitta dei golpisti in Bolivia. A riprova di ciò potrebbe interpretarsi anche un certo atteggiamento “distensivo” assunto dall’amministrazione Biden nei confronti dei Paesi ora menzionati, che si è esplicato anche in una parziale attenuazione delle sanzioni cui sono sottoposti che, per quanto riguarda in particolare il Venezuela riguardano in modo molto significativo il settore petrolifero.

Ma l’esperienza ci insegna che non è il caso di farsi illusioni eccessive e che la linea dell’Impero rimane più o meno sempre la stessa anche nel variare dei suoi rappresentanti. C’è una solida intesa bipartisan sulla necessità di conservare gli assetti di potere esistenti e questo vale sia per le politiche di destabilizzazione perseguite in Europa e nei confronti della Russia che, a maggior ragione, per quelle attuate in America Latina.

Due scadenze elettorali che si svolgeranno presto in tale ultimo ambito sono in particolare meritevoli della massima attenzione. Le elezioni presidenziali in Colombia (primo turno il 29 maggio) e in Brasile (primo turno il 2 ottobre) si svolgono con una fortissima pressione della destra e precise minacce da parte della cupola militare. Non è casuale che quest’ultima rappresenti in entrambi i Paesi un terminale molto preciso delle politiche di Washington. Differenti tuttavia le modalità prescelte dai militari nei due Paesi per ingerirsi nelle vicende politiche.

Nel caso del Brasile l’approccio appare tutto sommato più discreto e volto più che altro a conservare i privilegi e le cariche acquisite durante la presidenza di Bolsonaro, mentre in quello della Colombia si parla apertamente di possibile colpo di Stato per impedire l’assunzione della carica presidenziale da parte del candidato della sinistra Gustavo Petro, di cui viene minacciata anche l’eliminazione fisica.

Si tratta del resto del Paese dove la collaborazione militare tra oligarchia al potere e Stati Uniti è più organizzata e consolidata, anche per creare continue occasioni di provocazione nei confronti della Repubblica bolivariana di Venezuela. Le ridotte della reazione e dell’imperialismo si preparano insomma a fronteggiare ogni possibile sviluppo del movimento popolare in due Paesi chiave dell’America Latina.

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